Siamo abituati all’idea che solo le cime possano catturare la mente e corteggiare l’immaginazione, ma anche le valli hanno la capacità di sedurre il nostro cuore e richiamare ai nostri sensi la sensazione di selvaggio, di altrove, di segreto, e (forse) perduto.
[…] Poco dopo il Passo dei Quattro Cantoni ad un paio d’ore di marcia dal rifugio lasciai il sentiero che sale alla vetta della Presanella. Abbandonai di proposito la traccia puntando verso Ovest in direzione del profilo lontano, ma netto, di una grande morena stadiale. Avevo scelto quel percorso solitario e inusuale, in quota e di traverso rispetto alla Valle di Nardis, per entrare al suo interno e percorrerne il fondo.
Sopra i 2500 metri la valle è ampia, priva di alberi, totalmente selvaggia, scavata dalla forza dei ghiacci nei graniti e nella chiara tonalite dell’Adamello; il fondo e i fianchi sono ingombri di materiale, che il ghiacciaio ha eroso, trascinato e poi abbandonato dietro di sé in un grande e splendido caos di massi, limo, ghiaia, lisce superfici montonate, sfasciume di blocchi ora rotondeggianti, ora spigolosi e taglienti.
Più di trenta milioni di anni fa il silicio, il sodio e il ferro ora disposti ordinatamente nei cristalli di plagioclasio, quarzo e orneblenda, si agitavano nel cuore inquieto di un plutone: l’enorme massa di magma fuso in lento raffreddamento era intrappolata sotto centinaia di metri di rocce e sedimenti di origine marina. Durante l’orogenesi alpina, mentre già l’erosione attaccava le tenere rocce sedimentarie, il sollevamento della catena montuosa portò in alto tutta l’area, spingendola per oltre 4 chilometri fuori dal mare. Così venne alla luce il ventre ormai raffreddato dell’Adamello.
La meta non era una cima: ero salito fino ai depositi morenici a ridosso delle vedrette del ghiacciaio per fotografare la vegetazione e l’habitat delle lande selvagge a clima subpolare; è un ambiante aspro e mutevole di roccia e neve, dove affondano le loro robuste radici e fioriscono nella breve estate le specie più tenaci di fanerogame alpine. A questa quota i graniti formano un paesaggio luminoso, in limpido bianco e nero. La copertura vegetale è parziale e discontinua per cui spiccano qua e là, isolati, i capolini arancio del Doronico di Clusio, i cuscinetti rosa di Silene acaulis, i fusti prostrati dei salici nani, i pulvini di Androsace alpina.
Avevo lo zaino pieno di materiale: macchina fotografica, obiettivi, cavalletto, testa panoramica, drone, e avevo uno scopo preciso, ma per il momento desiderai solo non avere fretta: “l’aria è ancora fredda e tersa”- pensai – “la luce resterà buona, ‘che le nubi corrono veloci”.
In quegli spazi privi di riferimenti noti non è facile valutare le distanze e le dimensioni; mano a mano che mi avvicinavo alla morena mi accorsi di averne sottostimata l’altezza: è un muro di più di venti metri e l’angolo di riposo del materiale premuto lì dalla forza del ghiaccio forma una china molto inclinata dalla superficie dura. “Chissà com’è dall’altro lato; sarà da vedere dove scendere”.
Salii camminando di sbieco per evitare la massima pendenza e raggiunsi la sottile cresta affilata del deposito glaciale. Sulla sommità vidi il terreno abbassarsi di colpo ai miei piedi, alzai lo sguardo verso la cerchia di cime che proteggono la valle da ogni lato; il vento mi portò il suono dell’acqua di fusione della vedretta di Nardis che scorre proprio lì sotto, saltando fra le rocce.
Poggiai il primo passo in discesa e provai il sottile piacere dell’intrusione; era come venire accolto, solo, in un santuario dimenticato; e così vidi che quello era esattamente il posto dove avrei voluto essere.