Il senso di salire
[…] Quando il fabbro tornò a casa al limite occidentale del villaggio trovò suo figlio accanto all’uscio della fucina; l’aveva appena chiusa perchè la giornata era finita, e ora se ne stava lì a figgere lo sguardo lungo la bianca strada che suo padre percorreva tornando dai viaggi. Udendo passi, si volse sorpreso invece di vederlo giungere dal villaggio, e gli corse incontro, gli buttò le braccia al collo in segno di amoroso benvenuto. “Ti aspetto da ieri padre”, disse. […]
J.R.R. Tolkien – Il fabbro di Wootton Maior
Le mie montagne sono state innanzitutto un luogo di formazione. Fin da giovanissimo ho vissuto l’andare per monti come l’occasione di una libertà meritata, e il luogo di circostanze favorevoli per imparare e per far crescere la sensibilità verso ciò che è essenziale e perciò anche grande e nobile. Tutto della montagna era desiderabile (anche le sfide e le fatiche), il tempo trascorso sui monti, fra i “nostri” sassi e nei “nostri” boschi era prezioso, cercato e custodito.
Gli anni non hanno cambiato questa percezione: entrare in una faggeta, salire una cima, attraversare una vallata, alzare lo sguardo, notare le tracce del passaggio di una bestia o camminare a lungo in silenzio durante un rientro. Ecco: in queste cose c’è una educazione dei fatti, una semplice “evidenza di bene” che mi è sempre connaturale: l’esperienza della bellezza e della libertà non ha bisogno di parole per annidarsi spontaneamente in profondità e rimanerci, vitale.
Quando allaccio gli scarponi e carico lo zaino so bene da cosa ricomincio e cosa cerco, a quale memoria sono legato; e sono certo che anche stavolta ci sarà spazio e si farà trovare.